Colleferro (e Claviere) 1938

Indagando su una vecchia storia di cronaca è saltata fuori una storia familiare. Tragica l’una e l’altra. Ma come incartate l’una dentro l’altra. L’equivoco di un destino che se fosse letteratura potremmo chiamare beffardo. Ma letteratura non è.

Anno del Signore 1938. Località Colleferro, provincia di Roma (ma molto al confine con la provincia di Frosinone). Un territorio conosciuto come “Alta Valle del Sacco”. E chi si occupa di storie di inquinamento sa bene cosa voglia dire questa denominazione. Ma qui bisognerebbe narrare una vicenda di veleni che arriva fino ai giorni nostri e non è scopo di queste poche righe.

Colleferro in quegli anni – gli anni del Regime Fascista – è un po’ il vanto d’una dittatura molto propensa a costruire armi. A onor del vero la produzione di esplosivi  nella cittadina inizia ancora prima: dal 1912. Comunque nel 1938 è “felicemente” attivo uno stabilimento fondato da due senatori del Regno: Leopoldo Parodi Delfino e Giovanni Bombrini.  Attorno a questa industria nasce e si sviluppa il comune di Colleferro diventato vero comune con una legge del 1935.

Il 20 gennaio del 1938 è un sabato. Il cielo è terso sopra Colleferro. Tira un vento gelido che ha la forza di sbattere lontano ogni traccia di nuvola. Sono le 7.40 del mattino. Colleferro a quell’ora sa essere una città fredda, con una umidità beffarda (anch’essa) che ti entra nelle ossa. Uno scoppio. Fortissimo. Di quelli che non s’erano mai sentiti. La fabbrica di esplosivi. Senz’altro. Il pensiero di tutti corre verso lo stabilimento Bombrini Parodi Delfino. Nel diario di Mons. Umberto Mazzocchi, allora parroco di Colleferro, si legge: “A chi sarà toccato questa volta?”

Questa volta: e sì perchè una fabbrica di esplosivi non è una passeggiata. Piuttosto è un appuntamento col destino. Un pericolo col quale convivere. Un mostro da mandar giù perché assicura uno stipendio fisso, una casa, una tavola con sopra cose da mangiare. Un po’ come le miniere in Toscana o in Valle d’Aosta o in Sicilia o in Sardegna. La paura si ingoia giorno dopo giorno. Come fosse pane.

Sono in molti dunque a correre verso lo Scalo di Colleferro, dove sorge la fabbrica. Beffardo il destino, si diceva, che riserva adesso un altro scoppio. Più forte. Molto più forte del primo. Sono le 8.05.  Uno spostamento d’aria violentissimo. Corpi polverizzati. Fiamme a toccare il cielo. “Pezzi di macchinari, sassi, bombe… e tutto questo in un cielo coperto di polvere, che però diventava nero, rosso, giallo a seconda degli oggetti che esplodevano”. Insomma, l’inferno.

Alla fine si contano 60 morti. A far le spese dell’inferno scoppiato a Colleferro un sabato mattina del gennaio del ’38 sono i lavoratori della ditta Bombrini Parodi Delfino. Tra questi, l’ingegner Zanoletti. E qui si innesta l’equivoco del destino. La sua beffardaggine.

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L’ingegnere è l’unico maschio di una coppia milanese che ha -oltre lui – quattro figlie. I signori Zanoletti la sera dello stesso sabato si mettono in viaggio da Milano per raggiungere Colleferro senza conoscere bene la gravità dell’incidente. Due delle loro ragazze partono invece per la montagna nell’Alta Val di Susa in Piemonte assieme a un gruppo di amici per trascorrere la domenica sugli sci. Anna Maria e Rosina Zanoletti vengono sorprese da una slavina nel mezzo di una bufera di neve vicino il comune di Claviere. Il corpo di Anna Maria viene ritrovato subito. Quello di Rosina solo il giorno dopo.

I loro genitori perdono in un solo fine settimana tre dei loro cinque figli in due disgrazie avvenute a 800 km di distanza nell’inverno del 1938.

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L’uomo col cappotto

Credo fosse il 1999. Ma non ne sono sicura. Fosse stato davvero il 1999, allora era un anno prima della sua morte. L’interno di una libreria, piccola, non grande di certo. Credo peraltro la libreria si trovasse in via del Corso. Ma anche di questo ho un ricordo vago. Era tardo pomeriggio. D’inverno. Lo so per certo che era inverno perchè ho fissato nella mente il suo cappotto. Mi sembrò enorme quel cappotto buttato sopra spalle altrettanto enormi. O era la sua statura d’attore a essere così grande da farmi apparire adesso nel ricordo una sagoma esagerata. Ma in quella libreria al centro d’una Roma scura e fredda io c’ero andata per un altro motivo.

Avevo letto che Giampiero Mughini avrebbe presentato un libro sugli anni Settanta. Anzi il tema era più circoscritto: qualcosa che aveva a che fare con le “parole” degli anni Settanta. A me era bastato sapere che sarebbe stato un incontro dedicato in qualche modo a quel decennio per uscir di casa e mettermi in cerca di quella libreria. Non so se esiste ancora. C’erano delle scale dentro che collegavano due o tre stanze poste a dislivello. E fuori pioveva. Ricordo la strada lucida per il bagnato.

Arrivai che Mughini aveva già iniziato a raccontare. Poca gente. Lui seduto su uno sgabello con la stessa identica faccia di oggi. Non ricordo il colore della montatura degli occhiali, e nemmeno ho memoria del titolo del libro. Solo la copertina: bianca, rigida. Gente pochissima e scomodissima su sedie strette. Silenzio assoluto. Fuori e dentro la libreria. Io in un angolo in piedi. Nessun equivoco. Quasi niente da ricordare. Forse un pianoforte sullo sfondo con qualcuno che suonava. Ma non ne sono sicura. Il pianoforte sarebbe perfetto nel quadro fin qui dipinto. Forse troppo perfetto per esserci stato sul serio.

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Giampiero Mughini parlava. A un certo punto da una saletta nascosta sbuca fuori un uomo alto. Con il cappotto sulle spalle. Il cappotto era verde scuro o grigio. Non credo nero. L’uomo si avvicina al piccolo gruppo di persone. Ma non così tanto da mischiarsi a esso. Nessuno se ne accorge. Finché non fa una domanda. Credo d’essermi girata solo dopo aver ascoltato la sua voce. Averla riconosciuta. Nessuno batte ciglio. Una presenza così inattesa e imponente d’aver intimidito tutti. Pure Mughini.La domanda aveva a che fare con l’essenzialità mancata delle parole negli anni Settanta. O giù di lì.

Ora, in quell’atmosfera sospesa nessuno – che io mi ricordi – si è scomposto. Come fosse del tutto normale che un Vittorio Gassman serissimo sbucasse da un angolo della libreria e si mettesse a far domande. Mughini cominciò a rispondere. Usando tutta l’inessenzialità di cui era – è – capace. Ed eccolo l’equivoco, la lezione, la magia. L’uomo col cappotto con un gesto (teatrale?) si mette un cappello in testa e scompare verso la porta d’uscita. Senza ascoltare la risposta.