Virus e permafrost

Più lontano di così: Brevig Mission si trova in Alaska (Stati Uniti). E’ un piccolo villaggio sperduto nel freddo e ha avuto il suo posto d’onore negli annali della scienza. E dei virus.

Novembre 1918. Nel mondo stava per finire una guerra, vent’anni dopo ne sarebbe scoppiata un’altra, nel frattempo un terribile virus serpeggiava ovunque: la spagnola. E in questo “ovunque” ci cascò con mani e piedi anche Brevig Mission, a una velocità tale che in soli cinque giorni morirono 72 dei suoi 80 abitanti. Quasi tutti. Chi rimase in vita aveva un’età bassissima: bambini soprattutto.

All’epoca negli Stati Uniti di spagnola perse la vita il 28% della popolazione: 675 mila persone. In tutto il mondo si contarono 20 milioni di decessi. Ma Brevig Mission, a differenza di altri, aveva perso tutto. Passato e futuro del piccolo paese erano stati fatti a pezzi dalla pandemia. I suoi morti sepolti nel permafrost. Un caso unico. Di cui la scienza in un primo momento parve non accorgersi.

Se ne ricordò nel 1949 il giovane professor Johan Hultin, uno studioso svedese di microbiologia in forza all’università dell’Iowa. Un dettaglio, del racconto del triste destino di Brevig Mission, gli si era annidato dentro: il permafrost. I cadaveri sepolti sotto il ghiaccio potevano ancora “parlare”. Potevano, ancora, raccontare qualcosa della spagnola che aveva decimato Brevig. Così, Hultin mise progetti e moglie su un’automobile e imboccò la Alaska Highway. Arrivato in Alaska conobbe Otto Geist, un antropologo che lo aiutò nelle sue ricerche. Grazie ai registri parrocchiali delle chiese missionarie luterane i due individuarono il luogo in cui erano stati sotterrati i 72 abitanti di Brevig Mission: una enorme tomba dove erano stati messi tutti assieme e ricoperti da strati di ghiaccio. Solo due anni più tardi, Hultin e Geist raggiunsero la fossa comune: un buco largo tre metri e mezzo, lungo sette metri e mezzo, profondo quasi due metri. Ottennero l’autorizzazione a dissotterrare i corpi. Hultin era sicuro di poter recuperare il virus e poterlo poi studiare in laboratorio. Asportò pezzetti di tessuto polmonare e li portò in Iowa. Ma i suoi tentativi di recuperare la spagnola fallirono. Si arrese.

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E’ qui che si incastona il piccolo equivoco senza importanza che ribalta la storia. Bisogna aspettare “solo” 48 anni. Johan Hultin è invecchiato. Ma continua a studiare microbiologia. Il tarlo della spagnola non deve essersi chetato se al primo accenno di speranza si riaccende la fiamma. La miccia è innescata da un articolo che la rivista Science pubblica nel 1997 a firma del patologo molecolare Jeffery Taubenberger. L’uomo descrive d’essere riuscito a trovare il metodo per isolare il materiale genetico dai virus. Però il campione di tessuti nelle sue mani è troppo esiguo per ottenere risultati. Avrebbe bisogno di altro su cui lavorare. Hultin non esita. Riparte per l’Alaska. Ritorna a Brevig Mission. Chiede nuovamente il permesso agli anziani del villaggio per riesumare i corpi. Lo ottiene. Scava nella fossa comune dove giacciono in 72. Trova esattamente quello di cui ha bisogno: il corpo abbastanza corpulento di una donna ben conservato. I suoi polmoni si rivelano una fonte inesauribile di informazioni. Il resto è noto: nel 2005 Hultin e Taubenberger sono in grado di ricostruire, finalmente, il virus. Da qui, il vaccino.

Ecco di cosa sono fatte scienza, ricerca, medicina: di passioni, di uomini testardi, di vite passate a studiare una molecola. Di intuito. E, qualche volta, di equivoci che riaccendono incendi.

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