Virus e permafrost

Più lontano di così: Brevig Mission si trova in Alaska (Stati Uniti). E’ un piccolo villaggio sperduto nel freddo e ha avuto il suo posto d’onore negli annali della scienza. E dei virus.

Novembre 1918. Nel mondo stava per finire una guerra, vent’anni dopo ne sarebbe scoppiata un’altra, nel frattempo un terribile virus serpeggiava ovunque: la spagnola. E in questo “ovunque” ci cascò con mani e piedi anche Brevig Mission, a una velocità tale che in soli cinque giorni morirono 72 dei suoi 80 abitanti. Quasi tutti. Chi rimase in vita aveva un’età bassissima: bambini soprattutto.

All’epoca negli Stati Uniti di spagnola perse la vita il 28% della popolazione: 675 mila persone. In tutto il mondo si contarono 20 milioni di decessi. Ma Brevig Mission, a differenza di altri, aveva perso tutto. Passato e futuro del piccolo paese erano stati fatti a pezzi dalla pandemia. I suoi morti sepolti nel permafrost. Un caso unico. Di cui la scienza in un primo momento parve non accorgersi.

Se ne ricordò nel 1949 il giovane professor Johan Hultin, uno studioso svedese di microbiologia in forza all’università dell’Iowa. Un dettaglio, del racconto del triste destino di Brevig Mission, gli si era annidato dentro: il permafrost. I cadaveri sepolti sotto il ghiaccio potevano ancora “parlare”. Potevano, ancora, raccontare qualcosa della spagnola che aveva decimato Brevig. Così, Hultin mise progetti e moglie su un’automobile e imboccò la Alaska Highway. Arrivato in Alaska conobbe Otto Geist, un antropologo che lo aiutò nelle sue ricerche. Grazie ai registri parrocchiali delle chiese missionarie luterane i due individuarono il luogo in cui erano stati sotterrati i 72 abitanti di Brevig Mission: una enorme tomba dove erano stati messi tutti assieme e ricoperti da strati di ghiaccio. Solo due anni più tardi, Hultin e Geist raggiunsero la fossa comune: un buco largo tre metri e mezzo, lungo sette metri e mezzo, profondo quasi due metri. Ottennero l’autorizzazione a dissotterrare i corpi. Hultin era sicuro di poter recuperare il virus e poterlo poi studiare in laboratorio. Asportò pezzetti di tessuto polmonare e li portò in Iowa. Ma i suoi tentativi di recuperare la spagnola fallirono. Si arrese.

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E’ qui che si incastona il piccolo equivoco senza importanza che ribalta la storia. Bisogna aspettare “solo” 48 anni. Johan Hultin è invecchiato. Ma continua a studiare microbiologia. Il tarlo della spagnola non deve essersi chetato se al primo accenno di speranza si riaccende la fiamma. La miccia è innescata da un articolo che la rivista Science pubblica nel 1997 a firma del patologo molecolare Jeffery Taubenberger. L’uomo descrive d’essere riuscito a trovare il metodo per isolare il materiale genetico dai virus. Però il campione di tessuti nelle sue mani è troppo esiguo per ottenere risultati. Avrebbe bisogno di altro su cui lavorare. Hultin non esita. Riparte per l’Alaska. Ritorna a Brevig Mission. Chiede nuovamente il permesso agli anziani del villaggio per riesumare i corpi. Lo ottiene. Scava nella fossa comune dove giacciono in 72. Trova esattamente quello di cui ha bisogno: il corpo abbastanza corpulento di una donna ben conservato. I suoi polmoni si rivelano una fonte inesauribile di informazioni. Il resto è noto: nel 2005 Hultin e Taubenberger sono in grado di ricostruire, finalmente, il virus. Da qui, il vaccino.

Ecco di cosa sono fatte scienza, ricerca, medicina: di passioni, di uomini testardi, di vite passate a studiare una molecola. Di intuito. E, qualche volta, di equivoci che riaccendono incendi.

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La pecora nera

(L’allevamento della pecora Caracul è una necessità autarchica di notevole importanza ai fini dell’abbigliamento. Da questa pecora, l’agnellino di persia. Da questo agnellino, la pelliccia persiana. Ma l’agnellino deve essere ucciso nei primi giorni di vita perché se ne possa ricavare una particolarissima pelliccia nera a pelo corto.  Altrimenti poi il pelo diventa più chiaro e cambia anche di “bellezza”. Una pecora Caracul adulta è uguale a una qualsiasi altra pecora. Ogni signora elegante desidera una pelliccia nera ricavata dalla pecora Caracul. Ecco, per questo non se ne può fare a meno. Così più o meno recitava un servizio “giornalistico” del 1938).

La piccola storia della piccola pecora Caracul inizia dal suo nome. Perché in realtà il nome giusto sarebbe Karakul, ma delle “k” il Regime non sapeva che farsene, così la grammatica autarchica vide bene di snaturare come prima cosa il nome della povera piccola pecora. Particolare davvero senza importanza, se non fosse che l’autarchia qui non finisce con la grammatica.

La pecora Karakul è nata in Turkestan. Si tratta di una razza antichissima. Inesistente in Italia finché il Regime, negli anni Trenta, decise che non se ne poteva fare a meno. A introdurla sul suolo patrio un allevatore emiliano. Fascista e squadrista.

Enea Venturi era un agricoltore proprietario di vasti terreni vicino Bologna. Accusato d’aver preso parte attiva in vari scontri (e anche a un eccidio, quello del Castello Estense che il 20 dicembre 1920 causò la morte di sei persone), a un certo punto per Venturi il vento cambiò direzione. Da fascista a epurato: lo stesso regime cui aveva creduto fino al 1933, lo fece cadere in disgrazia. Continuò poi a dedicarsi ai suoi terreni e ai suoi allevamenti.

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Nel 1928 Enea Venturi aveva portato in Italia la pecora Karakul. Suo il primo allevamento di questa razza ritenuta così indispensabile a fini autarchici. Scrisse anche un libro, al riguardo: un manuale.

Pare che non abbandonò mai, nemmeno nel Dopoguerra e negli anni Cinquanta, un certo modo di fare – un nonsoché da squadrista – nei confronti dei suoi braccianti. Ma di questa piccolissima storia senza importanza colpisce un fatto inequivocabile: la pecora. Nera.

Colleferro (e Claviere) 1938

Indagando su una vecchia storia di cronaca è saltata fuori una storia familiare. Tragica l’una e l’altra. Ma come incartate l’una dentro l’altra. L’equivoco di un destino che se fosse letteratura potremmo chiamare beffardo. Ma letteratura non è.

Anno del Signore 1938. Località Colleferro, provincia di Roma (ma molto al confine con la provincia di Frosinone). Un territorio conosciuto come “Alta Valle del Sacco”. E chi si occupa di storie di inquinamento sa bene cosa voglia dire questa denominazione. Ma qui bisognerebbe narrare una vicenda di veleni che arriva fino ai giorni nostri e non è scopo di queste poche righe.

Colleferro in quegli anni – gli anni del Regime Fascista – è un po’ il vanto d’una dittatura molto propensa a costruire armi. A onor del vero la produzione di esplosivi  nella cittadina inizia ancora prima: dal 1912. Comunque nel 1938 è “felicemente” attivo uno stabilimento fondato da due senatori del Regno: Leopoldo Parodi Delfino e Giovanni Bombrini.  Attorno a questa industria nasce e si sviluppa il comune di Colleferro diventato vero comune con una legge del 1935.

Il 20 gennaio del 1938 è un sabato. Il cielo è terso sopra Colleferro. Tira un vento gelido che ha la forza di sbattere lontano ogni traccia di nuvola. Sono le 7.40 del mattino. Colleferro a quell’ora sa essere una città fredda, con una umidità beffarda (anch’essa) che ti entra nelle ossa. Uno scoppio. Fortissimo. Di quelli che non s’erano mai sentiti. La fabbrica di esplosivi. Senz’altro. Il pensiero di tutti corre verso lo stabilimento Bombrini Parodi Delfino. Nel diario di Mons. Umberto Mazzocchi, allora parroco di Colleferro, si legge: “A chi sarà toccato questa volta?”

Questa volta: e sì perchè una fabbrica di esplosivi non è una passeggiata. Piuttosto è un appuntamento col destino. Un pericolo col quale convivere. Un mostro da mandar giù perché assicura uno stipendio fisso, una casa, una tavola con sopra cose da mangiare. Un po’ come le miniere in Toscana o in Valle d’Aosta o in Sicilia o in Sardegna. La paura si ingoia giorno dopo giorno. Come fosse pane.

Sono in molti dunque a correre verso lo Scalo di Colleferro, dove sorge la fabbrica. Beffardo il destino, si diceva, che riserva adesso un altro scoppio. Più forte. Molto più forte del primo. Sono le 8.05.  Uno spostamento d’aria violentissimo. Corpi polverizzati. Fiamme a toccare il cielo. “Pezzi di macchinari, sassi, bombe… e tutto questo in un cielo coperto di polvere, che però diventava nero, rosso, giallo a seconda degli oggetti che esplodevano”. Insomma, l’inferno.

Alla fine si contano 60 morti. A far le spese dell’inferno scoppiato a Colleferro un sabato mattina del gennaio del ’38 sono i lavoratori della ditta Bombrini Parodi Delfino. Tra questi, l’ingegner Zanoletti. E qui si innesta l’equivoco del destino. La sua beffardaggine.

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L’ingegnere è l’unico maschio di una coppia milanese che ha -oltre lui – quattro figlie. I signori Zanoletti la sera dello stesso sabato si mettono in viaggio da Milano per raggiungere Colleferro senza conoscere bene la gravità dell’incidente. Due delle loro ragazze partono invece per la montagna nell’Alta Val di Susa in Piemonte assieme a un gruppo di amici per trascorrere la domenica sugli sci. Anna Maria e Rosina Zanoletti vengono sorprese da una slavina nel mezzo di una bufera di neve vicino il comune di Claviere. Il corpo di Anna Maria viene ritrovato subito. Quello di Rosina solo il giorno dopo.

I loro genitori perdono in un solo fine settimana tre dei loro cinque figli in due disgrazie avvenute a 800 km di distanza nell’inverno del 1938.

L’uomo col cappotto

Credo fosse il 1999. Ma non ne sono sicura. Fosse stato davvero il 1999, allora era un anno prima della sua morte. L’interno di una libreria, piccola, non grande di certo. Credo peraltro la libreria si trovasse in via del Corso. Ma anche di questo ho un ricordo vago. Era tardo pomeriggio. D’inverno. Lo so per certo che era inverno perchè ho fissato nella mente il suo cappotto. Mi sembrò enorme quel cappotto buttato sopra spalle altrettanto enormi. O era la sua statura d’attore a essere così grande da farmi apparire adesso nel ricordo una sagoma esagerata. Ma in quella libreria al centro d’una Roma scura e fredda io c’ero andata per un altro motivo.

Avevo letto che Giampiero Mughini avrebbe presentato un libro sugli anni Settanta. Anzi il tema era più circoscritto: qualcosa che aveva a che fare con le “parole” degli anni Settanta. A me era bastato sapere che sarebbe stato un incontro dedicato in qualche modo a quel decennio per uscir di casa e mettermi in cerca di quella libreria. Non so se esiste ancora. C’erano delle scale dentro che collegavano due o tre stanze poste a dislivello. E fuori pioveva. Ricordo la strada lucida per il bagnato.

Arrivai che Mughini aveva già iniziato a raccontare. Poca gente. Lui seduto su uno sgabello con la stessa identica faccia di oggi. Non ricordo il colore della montatura degli occhiali, e nemmeno ho memoria del titolo del libro. Solo la copertina: bianca, rigida. Gente pochissima e scomodissima su sedie strette. Silenzio assoluto. Fuori e dentro la libreria. Io in un angolo in piedi. Nessun equivoco. Quasi niente da ricordare. Forse un pianoforte sullo sfondo con qualcuno che suonava. Ma non ne sono sicura. Il pianoforte sarebbe perfetto nel quadro fin qui dipinto. Forse troppo perfetto per esserci stato sul serio.

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Giampiero Mughini parlava. A un certo punto da una saletta nascosta sbuca fuori un uomo alto. Con il cappotto sulle spalle. Il cappotto era verde scuro o grigio. Non credo nero. L’uomo si avvicina al piccolo gruppo di persone. Ma non così tanto da mischiarsi a esso. Nessuno se ne accorge. Finché non fa una domanda. Credo d’essermi girata solo dopo aver ascoltato la sua voce. Averla riconosciuta. Nessuno batte ciglio. Una presenza così inattesa e imponente d’aver intimidito tutti. Pure Mughini.La domanda aveva a che fare con l’essenzialità mancata delle parole negli anni Settanta. O giù di lì.

Ora, in quell’atmosfera sospesa nessuno – che io mi ricordi – si è scomposto. Come fosse del tutto normale che un Vittorio Gassman serissimo sbucasse da un angolo della libreria e si mettesse a far domande. Mughini cominciò a rispondere. Usando tutta l’inessenzialità di cui era – è – capace. Ed eccolo l’equivoco, la lezione, la magia. L’uomo col cappotto con un gesto (teatrale?) si mette un cappello in testa e scompare verso la porta d’uscita. Senza ascoltare la risposta.

Le parenti di San Gennaro

La mattina presto del giorno in cui San Gennaro è chiamato a fare il miracolo “le donne” siedono nella piccola cappella del Santo, quella che si trova in un lato all’interno del Duomo. Mattina presto, prestissimo, di uno dei tre giorni dell’anno in cui Gennaro, il Santo di Napoli, deve fare il miracolo: il primo sabato di maggio, il 19 settembre e il 16 dicembre. Sono queste le date in cui dovrebbe concedere la grazia del miracolo alla sua città.

Quelle donne sono le vere protagoniste del miracolo. Non il sangue che si scioglie, non le ampolline  che lo contengono, non il fazzoletto che viene sventagliato. E nemmeno il guardarsi un po’ di sbieco della Chiesa (quella ufficiale) e della fede – tutta napoletana – in questo santo decollato. E su quello sguardo, diffidente, silenzioso, mentitore quasi, sarebbe da ricamarci sopra un trattato di piccoli equivoci, non solo una storia.

Le donne, quelle donne, però meritano una lente di ingrandimento. Quando arriva il giorno in cui è buona norma che San Gennaro faccia il miracolo, i diversi strati della società cittadina prendono il proprio posto sui banchi del Duomo. Il posto delle donne è nella cappella laterale. Loro sanno perchè.

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Sono le parenti di San Gennaro. Il vero mistero del sangue che si scioglie (o no) sono loro. Recitano cantano pregano offendono il Santo. S’arrabbiano se le ore passano e il miracolo non avviene. Blasfeme erano un tempo per la Chiesa ufficiale: blasfeme per quel loro pregare che è un offendere. Per quel loro esserci senza autorizzazioni. Senza misura. Per i loro canti, come fossero litanie dedicate a un eroe morto. Loro – le pie donne di San Gennaro – blasfeme per quella loro lontananza dal “sacro” ufficiale: perchè col Santo ci parlano, lo prendono a male parole, si battono il petto, si mettono le mani tra i capelli. Cantano in dialetto, in napoletano: blasfeme anche per questo, chè non si prega (più) in dialetto.

Un tempo entravano addirittura in trance. Perchè solo così poteva esserci un rapporto diretto con Gennaro. Intimo. E al Santo dicevano di far presto, di non farle aspettare, e lo trattavano come un bambino, come una madre tratta il proprio figlio. Andavano in trance e non capivano più niente. Capivano solo che una di loro una volta – secoli prima – aveva raccolto il sangue di San Gennaro, ed era come se tutte lo avessero raccolto quel sangue: quindi Gennaro fai presto, te lo diciamo noi che siamo le tue madri, fai presto a fare il miracolo, che non succeda l’indicibile, che non accada che il sangue non si sciolga, perchè San Gennaro tu lo sai bene che sennò saranno sciagure… fa’ la grazia… faccia ‘ngialluta…

Luigi Carrel, il camoscio del Cervino

Dicono di lui che sulle pareti di montagna era un camoscio, sui ghiacciai navigava come un vecchio marinaio, e al vento non si opponeva mai, ma si piegava come l’erba dei pascoli. Dicono di lui che quando ridiscendeva a valle era come l’acqua delle cascate di Cheneil. A Valtournenche sanno tutto di lui. Di Luigi Carrel.

Dicono anche – di lui – che avesse due occhi piccoli piccoli, ma veloci nell’acchiappare uno sguardo. Che nella vita non gli serviva altro che la sua pipa e la sua montagna, il Cervino. E dicono, anche, che non fosse di statura eccelsa. Per tutti era il Carrellino. Ma di Luigi Carrel in Valle d’Aosta si sentono dire solo parole belle. Perchè la sua fu una storia – e una vita – bella. Di una bellezza senza equivoci.

Luigi Carrel nasce nel 1901. Figlio di una guida alpina, anche Luigi ha la passione della montagna. Anzi, del Cervino.  Negli anni Trenta (del secolo scorso) il nome di Luigi Carrel comincia a diventar famoso. Ma è negli anni Quaranta che compie le sue avventure migliori raccontate perfino dai giornali dell’epoca: quel giovanotto che indossava un berretto messo di sbieco sulla testa era nato nella piccolissima frazione di Cretaz, giù in valle. Poi si era trasferito a Cheneil, un po’ più su, sempre all’ombra del suo Cervino.

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Nel 1937 Luigi Carrel si sposa con Maria Gaspard. Dopo qualche mese parte per la Patagonia (altre montagne, altre sfide) ma al suo rientro la moglie muore per le conseguenze di un parto. Carrel sfida il Cervino. Lo fa più volte. Le salite non si contano. E solo chi ha la passione della montagna – quella vera – può capire quale fu la grandezza di questo piccolo uomo.

Il bell’equivoco è un altro. Non sta nella fama di Carrel come pionere del Cervino.

C’era la guerra nel 1943, anche in montagna. Soprattutto in montagna. C’era la guerra e c’erano i partigiani. Luigi Carrel la sua scelta l’aveva fatta. Quand’era necessario passava il confine, lasciava la Valle d’Aosta a piedi e arrivava dall’altra parte, in Svizzera. L’uomo tutto nervi e scatti, con quegli occhi irrequieti e penetranti – come lo avevano descritto in un articolo de La Stampa qualche anno prima – era un uomo di una onestà trasparente. La montagna che era stata fino a quel punto una sfida quasi fine a se stessa, adesso per alcuni era diventata una necessità da oltrepassare. Per varcare un confine e mettersi in salvo. Così la guida alpina Luigi Carrel diventa passatore: aiuta chi ne ha bisogno a varcare quel confine passando per l’aspra montagna.

Dicono di Luigi Carrel che i suoi occhi – sempre quegli occhi piccolissimi – quasi spianassero la via prima ancora che le sue mani potessero aggrapparsi alle rocce. Non era uomo troppo avvezzo a usar parole, soprattutto lontano dai chiodi e dalle corde.

Equivoco post scriptum: forse i nomi di questi luoghi di montagna e il nome stesso di Luigi Carrel a molti non dicono nulla. Ma per quei pochi che li conoscono – e li amano – suonano come il nome di una patria.

Il David di Arcidosso

Un volto, un monte e un santo. Il santo non è proprio un santo di quelli veri. Il monte è un monte sacro: anche in questo caso non proprio di quelli veri per la verità. Il volto, quello sì che era vero. Una storia che già si annuncia complicata, quella di Arcidosso (Toscana, provincia di Grosseto).

Ad Arcidosso alla fine dell’Ottocento andò in scena l’utopia. Certo non solo lì. Ma è la casualità o la non casualità del posto a destare un minimo di curiosità. Questo paesino alle pendici del Monte Amiata ha un che di sacro. Non nel senso di altari, chiese e campanili. Ma per quel suo essere stato scenario in cui si è svolta la storia – particolarissima – di un uomo: David Lazzaretti.

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Santo. Martire. Predicatore. Bell’uomo. David Lazzaretti nasce ad Arcidosso nel 1834.Lui – l’utopista – era uno che aveva imparato a leggere senza che nessuno glielo avesse mai insegnato. Imparò, soprattutto,  a leggere il libro del mondo: a decifrare la vita. Povero, poverissimo. Ma ricco di sogni impossibili. Padre di cinque figli, una vita non certo tranquilla in cui si annovera anche la battaglia di Castelfidardo (1860) Lazzaretti a un certo punto cominciò a parlare di visioni. E quel che vedeva – o diceva di vedere – metteva paura alla società di fine Ottocento.

Erano utopie, le sue. Utopie che potremmo definire (parola ormai in disuso) socialiste. Si mise a predicare per un cristianesimo più povero e attento all’idea di uguaglianza. Si mise a raccontare della possibilità di una società diversa. Fondò un movimento religioso tra le montagne di Arcidosso. Raccolse proseliti. Sfidò le autorità tutte, ecclesiastiche e non. Cosa che qualcuno non accettò di buon grado, perchè le utopie metton sempre paura al bel mondo.

David Lazzaretti fu ucciso il 18 agosto 1878 da un carabiniere o da un militare mentre era in testa a una processione pacifica che scendeva verso Arcidosso. I suoi compagni di processione vennero poi processati per “attentato contro la sicurezza interna dello Stato”.  Processo che si concluse con un’assoluzione. E lui passò alla storia come il Cristo dell’Amiata.

Finisce qui la storia di David Lazzaretti in quel di Arcidosso? Naturalmente no. Manca l’appendice dell’equivoco. Che esiste anche in questo caso. Anzi, stavolta gli equivoci sono due.

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Equivoco numero uno: il corpo di David Lazzaretti. Il corpo di quest’uomo ucciso lo volle studiare l’antropologo Cesare Lombroso, certo di potervi rintracciare una qualche forma organica di criminalità.

Equivoco numero due: ad Arcidosso, sul monte Labbro – quello dove Lazzaretti fece costruire la torre giurisdavidica, simbolo del movimento religioso da lui fondato – oggi c’è anche un tempio tibetano. I luoghi che un tempo appartennero all’utopia di David Lazzaretti oggi sono al servizio di un’altra spiritualità. Così il monte Labbro non ha smesso di incarnare una certa idea di uguaglianza.

Post scriptum: i sacerdoti del movimento giurisdavidico si sono succeduti per oltre un secolo. L’ultimo è morto nel 2002.

Cervarolo. Piccola strage (con importanza)

In alcuni paesi sopravvivono le tradizioni. In altri la memoria. E i nomi. Nel piccolo borgo di Cervarolo,  quel che ancora oggi ha valore e importanza e senso sono ventiquattro nomi. Ventiquattro volti di civili morti nel 1944.

Cervarolo non arriva nemmeno a essere un paese. Troppo piccola. Si limita a essere una frazione del comune di Villa Minozzo, sull’Appennino Tosco Emiliano. E pare troppo piccola anche per portare il peso del suo recente passato. Il peso di tutti quei nomi che hanno subito il martirio e l’orrore. Uomini e ragazzi tra i 17 e gli 84 anni. Intere generazioni di questa comunità spazzate via con qualche colpo d’arma da fuoco.

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20 marzo 1944. Giornata fredda. Aria gelida. Una piccola aia. Uno spiazzo tra le poche case. I tedeschi. Tutti gli uomini di Cervarolo chiamati in questo quadratino di terra. Con l’inganno. E non c’entra il caso o l’equivoco. C’entra la storia delle stragi nazi-fasciste compiute in Italia nel 1944.

Agli uomini di Cervarolo fu detto di rimanere in casa, che nulla sarebbe loro successo. Ma non fu così. Nonostante il giorno prima fosse arrivato un telegramma dove si parlava di “un paese da purificare”. Ma nessuno immaginava si trattasse esattamente di Cervarolo.

Arrivano dunque i tedeschi. Prima si dedicano al saccheggio delle case. Mentre la milizia fascista fa la guardia alle porte dell’abitato. Poi gli stessi soldati tedeschi “bussano” a ogni uscio in cerca di uomini. Quegli stessi cui era stato detto di rifugiarsi dentro le proprie abitazioni. I tedeschi entrano e li portano via. Li riuniscono nell’aia.

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Un po’ nevica quel 20 marzo del 1944 a Cervarolo. Un po’ la neve comincia a sciogliersi. L’inizio della primavera sull’Appennino Tosco Emiliano spesso è così come il giorno in cui vengono trucidati 24 uomini d’ogni età.

Ma la storia dell’eccidio di Cervarolo non finisce qui. Il vero equivoco è quello della sua “riscoperta”. Anzi della scoperta del cosidetto armadio della vergogna nel 1994 in uno scantinato della procura generale militare. Armadio che conteneva più di 600 fascicoli sulle stragi nazi-fasciste. Tra cui anche quelli relativi a Cervarolo.

Altra appendice di questa storia: il processo. Che si è concluso “solo” il 6 luglio 2011 con la condanna di sette ex nazisti. E che si era aperto “solo” nel 2005 presso il Tribunale Militare di Verona.

Capote-Brando. L’intervista e il dubbio

L’anno: 1957. Il giornale: The New Yorker. E già così sarebbe da ricavarci una storia. Poi. L’intervistatore: Truman Capote. L’intervistato: Marlon Brando. E più che una storia a questo punto si sgrana davanti alla fantasia un mondo. Il mondo di quando su questa terra si aggiravano scrittori come Truman Capote e attori come Marlon Brando. E venivano stampati giornali in cui le interviste erano piccoli capolavori senza importanza.

I due si incontrano al quarto piano dell’Hotel Miyako, a Kyoto (Giappone). Brando è lì per girare un film (Sayonara). Capote è lì per intervistare uno degli attori più  famosi e controversi di quegli anni (lui scrittore altrettanto famoso e controverso).

Capote arriva con venti minuti di ritardo. Una ragazza giapponese lo conduce alla camera di Brando. Un’altra ragazza giapponese gli apre la porta. Sorrisi e gentilezza. Albergo giapponese di stile occidentale. Porte scorrevoli di carta. Disordine nelle stanze occupate dall’attore. Qua e là pezzi di frutti smangiucchiati. Libri: opere buddhiste, meditazione zen, misticismo induista. Ma nessun romanzo: Marlon Brando non ne legge dal 3 aprile del 1924. Data che corrisponde al giorno della sua nascita.

Truman Capote osserva ogni più piccolo dettaglio di quella stanza al quarto piano dell’hotel Miyako di Kyoto. Osserva ogni gesto ogni smorfia ogni alzata di sopracciglia dell’uomo che ha davanti. Vuol raccontarlo. Ma pare non aver fretta di farlo. Non ha fretta nemmeno di far domande. Il suo è un gioco di lento avvicinamento letterario. Come temesse la trappola della fascinazione. La pazienza dell’attesa.

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Quel che ne esce fuori non è solo una lezione di stile: la dolorosa bellezza della scrittura di Capote. Ma è soprattutto il ritratto di due uomini. Uno che dovrebbe far domande e non ne fa. L’altro che suo malgrado racconta un po’ della propria vita.

“Gli ultimi otto, nove anni della mia vita sono stati un disastro” dice Brando “Le persone sensibili sono così vulnerabili”…  e l’intervista-racconto si srotola lentamente. Vale la pena leggerla tutta. Perchè è una piccola storia. Che diresti senza importanza. Mentre invece in quel numero del 9 novembre 1957 del New Yorker si faceva la Storia di un nuovo modo di far giornalismo e letteratura insieme. Il cui merito va tutto a Truman Capote.

“… e ascolta” Marlon Brando richiama per un istante Capote che si allontana lungo il corridoio dell’hotel. “Non prestare troppa attenzione a quello che dico. I don’t always feel the same way”. La frase di congedo dell’attore è il Capolavoro dell’Equivoco. Ore a rilasciare un’intervista. L’intervistatore che con pazienza certosina osserva sussurra scruta prende nota. L’intervistato che si apre forse come non mai davanti a uno scrittore venuto fino in Giappone a far il giornalista. Ed ecco che s’insinua quel dubbio.

Ps: a me rimane anche un altro dubbio. Siamo poi così sicuri che Truman Capote abbia scritto la verità?

Per leggere l’intervista integrale:

The Duke in his domain