Piccola America senza importanza

Mi capitò un giorno d’andare in America. “America” intesa per Stati Uniti. La mia America non era New York o Los Angeles, no. La mia America era piccola piccola. E quasi senza importanza, se non fosse stato per un dettaglio: era la cittadina dov’era cresciuto George W. Bush jr.

Midland. In Texas. La città del nulla in mezzo al nulla.

Però questo nulla, manco a dirlo, se lo vendevano abbastanza bene. Al turista (diciamo così) proponevano una cosa affascinantissima: il tour dei luoghi legati alla famiglia Bush. Sette case. E solo questo per la piccola città texana si rivelava una piccola fortuna: significava poter costruite sette musei, far pagare il biglietto sette volte, e costruirci sopra un “itinerario turistico”. Sebbene alcune di queste case fossero private, l’operazione “itinerario” non arretrava: le si poteva – al limite – vedere dall’esterno. Di casa in casa l’evidenza balzava agli occhi:  col passare degli anni e il mutare delle ricchezze,  cambiavano anche le dimensioni delle case abitate dai Bush.

Di pari passo col tour delle case dei Bush, a Midland, si poteva seguire un altro itinerario: quello delle chiese. Gli edifici religiosi erano davvero tanti, ma tutti – mi verrebbe da dire – “per uomini bianchi”: presbiteriani, battisti, avventisti del settimo giorno, metodisti, anglicani,  carismatici, episcopali, e via dicendo fino a superare le duecento comunità. Come fossero mille diverse versioni della stessa fede, e mille diverse versioni di una stessa architettura.

Una chiesa, però, per il “turista” era la più importante: la cappella dove si era sposata la seconda coppia presidenziale col nome di Bush. L’anno è il 1977: George W. Bush sposa Laura e diventa metodista. E alla chiesa deve anche forse una sterzata del suo destino. Considerando quel che ha raccontato lui stesso da Presidente degli Usa: “Avevo un problema con il bere, in questo momento sarei potuto essere in un bar del Texas anziché nello studio ovale, e l’unica ragione per cui non sono lì ma qui è che ho trovato la fede…” .

M il “turista” curioso si mise a cercare una chiesa di cui aveva letto nonsodove e nonsoquando: Cowboy Church. Fondata “solo” nel 1996 da una coppia, i signori Monty e Susan Price. Una chiesa con tanto di spazio per il rodeo. Sfortuna volle che i signori Price morissero in un incidente aereo qualche anno dopo. E così la chiesa era chiusa… e l’arena per il rodeo vuota.

E allora meglio dedicarsi a qualcosa di più classico: musei.

Non si può capire la storia di questo stato del sud, quello con una sola stella sulla bandiera e che ha per motto la parola “amicizia” , se non si dà uno sguardo alla storia dei cowboy. Cosa che a Midland è possibile fare nella “Haley Memorial Library”. Il museo dei cowboy. Del resto da qui un tempo passava il West, quello vero, quello venuto prima di Hollywood.

E non si può capire la storia dei Bush senza visitare il secondo museo della città: quello del petrolio, Petroleum Museum. L’industria petrolifera da queste parti, nel Texas occidentale,  cominciò a mettersi in moto fin dagli anni Venti, ma bisogna aspettare gli anni Settanta-Ottanta per avere il vero boom. Prima un pozzo, poi un altro, con i macchinari che via via andavano cambiando e con le generazioni che andavano via via arricchendosi, facendo di Midland una specie di incarnazione architettonica del sogno americano.

Non a caso, quando nei primi anni Sessanta si cominciò a prospettare l’idea di mettere su un museo dedicato al petrolio, furono in 500 – tutti petrolieri texani – a sottoscrivere l’idea con la propria firma su un assegno. Qualcosa quella firma doveva pur significare: magari una specie di “ringraziamento” alla manna nera del sottosuolo.

E il museo è tutto un raccontare, un voler a tutti i costi raccontare, quanto bella e buona sia l’industria petrolifera, quanto utile sia l’industria petrolifera e quanto indispensabile sia – soprattutto per chi nasce nel mezzo del deserto texano – il vecchio sogno americano.

Skyline

Infine mi capitò d’entrare in una scuola elementare e fare qualche domanda a bambini di 8-9 anni. Una risposta in particolare mi rimase impressa, perchè ripetuta da più voci. Alla domanda “mi descrivi Midland?” i bambini dicevano E’ bella e sicura. So che non mi succederà niente. Posso giocare con i miei vicini di casa e so che sono al sicuro”.  Sarà stato – se non ricordo male – un paio d’anni dopo  l’11 settembre 2001. Quella parola – sicurezza –  ripetuta più volte da voci tanto giovani aveva un che di stonato, di esagerato. Quanto doveva avera paura quella piccola America senza importanza per ricordare a se stessa, laggiù in Texas, che sì s’era tutti al sicuro? E per ripeterlo incessantemente ai propri figli?

Ps: naturalmente chissà se un turista italiano è  mai davvero arrivato a Midland. Io ci andai per lavoro. E ci incontrai l’unico italiano emigrato laggiù. Aveva aperto  un ristorante e investito un po’ nel petrolio. S’era sposato e messo su famiglia. Stava bene, di soldi. Ma mi raccontò – dopo qualche bicchiere – quanto aveva dovuto faticare in una società così chiusa e razzista. Era un calabrese.

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Il matrimonio di Alessandria del Carretto

Un legame  viscerale, quello tra Alessandria del Carrettto e la natura che la circonda. Più viscerale che altrove. Causa un matrimonio d’antichissima data. E che ogni anno – a primavera – viene ri-celebrato con riti, gesti, parole identici e mai dimenticati.

Alessandria del Carretto si trova in Calabria, nel Parco del Pollino. Calabria di montagna, dunque. Dignitosissima montagna. Il paese è abitato da meno di cinquecento persone. Gli inverni sono lunghi e silenziosi da queste parti, almeno in superficie. Ma quando viene maggio. Beh… c’è il risveglio, no?

Il piccolo mondo di Alessandria del Carretto non sarebbe lo stesso senza i suoi alberi. Forse non esisterebbe nemmeno. Perchè questa comunità di resistenti sopravvive anche grazie a un collante eccezionale quale è la festa della Pita.

A grandi, grandissime linee, la festa prevede queste tappe: gli uomini salgono in montagna a scegliere l’albero da abbattere. Poi l’albero – lo sposo – viene trascinato fin dentro il paese con delle tire, cioè pertiche attaccate al tronco tramite anelli chiodati. Per legare le tire agli anelli vengono utlizzate delle corde costruite direttamente sul posto sfruttando rami di alberi selvatici. Sono passaggi importanti questi: non si tratta di semplice tecnica. Ma di gestualità. Ciascuno di questi gesti richiama un gesto analogo di un vecchio mestiere. Il mondo arcaico del lavoro è continuamente evocato. Così come la struttura sociale su cui quel mondo posava.

La grande discesa dell’albero dalla montagna impiega gli uomini di Alessandria del Carretto – e solo gli uomini – per quasi dodici ore. Canti, balli, suoni. Vino. La discesa è una festa. C’è la fatica e c’è il lasciarsi andare a una sorta di baccanale. Il sacrificio dell’abete abbattuto sul monte Pollino serve a propiziarsi la primavera, se lo si vuol leggere con occhi pagani. Serve invece a ingraziarsi sant’Alessandro se lo si vuol rileggere con strumenti cristiani (la festa si svolge infatti ai primi di maggio).

Nota a margine per chi di riti e pre-religioni ne capisce: nell’antica Roma a fine marzo si celebrava la festa del pino sacro. Mentre cembali e tamburi suonavano e risuonavano, i sacerdoti si scatenavano in una danza sfrenata.

Ma non si voglia leggere in questo rito dell’abbattimento dell’albero e del suo trascinarlo fin sulla piazza del paese un atto contro la natura. Al contrario. Per trasportare l’abete giù dalla montagna ci vuole forza. Come a doversi riconquistare ogni anno il rispetto della natura. Una specie di dialogo con le montagne, le nuvole, la pioggia, il fango. E gli uomini di Alessandria del Carretto dimostrano di sapersi sporcare le mani di terra. Di saper faticare. D’essere abituati a confrontarsi con la Natura.

Quando l’abete sta per mettere piede in paese, spunta fuori anche la sposa: la cima di un albero più piccolo. Bisognerà celebrare il matrimonio tra i due. Ma questo avverrà solo una settimana dopo: il 3 maggio, giorno di sant’Alessandro.

L’innesto, il matrimonio tra i due alberi è il momento finale. Una volta uniti, i due tronchi  – diventati un’anima sola – vengono innalzati. Ed è – anche questa – una cerimonia lenta e rigorosa. Due, tre ore, se tutto va bene. Strumenti arcaici e forza collettiva sono le sole tecniche permesse. Sofferenza e tensione. Fino al momento in cui il tronco può dirsi di nuovo albero perchè torna a sfiorare l’azzurro.

Ecco, la storia fin qui raccontata è veramente un riassunto grossolano di quel che accade ad Alessandria del Carretto i primi di maggio. Vederla lì, in quella terra, ai piedi del Pollino, sarebbe l’unico modo per capire quanta anima e quanto passato ci sono in questa festa. Bisognerebbe sentirne i suoni, gli ordini, i canti, finanche le male parole.

E poi bisognerebbe riflettere sull’equivoco. Il secondo significato che si legge tra le righe di questa festa. E di tutte le altre. Natali e Pasque comprese. Il matrimonio dell’albero non avrebbe nulla a che vedere con l’omaggio alla natura, il risveglio della primavera, eccetera eccetera. L’abete tagliato starebbe piuttosto a simboleggiare il martirio del santo (Alessandro). Festa cristiana dunque. L’equivoco di tutte le feste.

Le stelle della Valle d’Aosta

Il mondo è una questione di proporzioni. E le proporzioni sono – sempre – relative. Tutto dipende da come le si guarda. Da dove le si guarda. Esistono posti dove il cielo scappa via e non riusciresti mai a sentirtelo addosso. E posti invece dove ti sembra quasi di sentire il “peso” delle stelle sfiorarti i capelli. Uno di questi posti è la montagna: lassù il cielo ti segue pochi passi più in là. Solo un’impressione, forse. Solo un equivoco, forse. Eppure è in montagna che bisogna andare quando si ha voglia di studiare le stelle. Un posto in particolare: l’Osservatorio Astronomico di Saint Barthélemy, in Valle d’Aosta, quasi a metà strada tra il monte Bianco e il Cervino.

Saint Barthélemy è un posto privilegiato. Un posto “fortunato” per guardar le stelle. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, non a caso, vi fu costruito un Osservatorio Meteorologico. E con quell’Osservatorio si scoprì una cosa cui quassù in montagna nessuno avrebbe mai immaginato: a Saint Barthélemy ci sono in media 2150 ore di sole l’anno.

Il segreto, l’equivoco, di Saint Barthélemy sta tutto nella luminosità eccezionale del suo cielo. E del cielo di questa piccola regione, la Valle d’Aosta. Una regione che confina con le stelle.

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All’Osservatorio Astronomico di Saint Barthélemy ti aiutano a decifrare il cielo. All’inizio non è facile capire come funzionano gli strumenti per osservare le stelle. Sono oggetti che necessitano di un linguaggio un po’ ostico. Ma non bisogna farsi spaventare da questa severità di parole. Perché ala fine basta puntare l’occhio in un aggeggio dove c’è un gioco di specchi e di fasci di luce ed ecco che le stelle compaiono. Vicinissime. Ed eccolo lì anche, limpido, luminoso, netto: l’equivoco. Piccolo piccolo come l’uomo di fronte a questo cielo. E di infima importanza. Ma pur sempre un equivoco.

L’astronomia non è la scienza delle montagne. L’astronomia appartiene alle montagne. La parte più tortuosa del pianeta Terra, quella cui gli scalatori dedicano testardamente la propria vita e le proprie giornate, quella dove fare un passo è come conquistare un altro pezzetto di mondo e arrivare in vetta è come conquistare il mondo intero: proprio quella parte di terra meglio si aggancia alle stelle.

C’è un altro aspetto affascinante per chi nelle piccole storie di mondo cerca l’equivoco e il paradosso: la montagna è il regno della essenzialità. Tutti questi strumenti per guardar le stelle – invece – giocano su princìpi fisici un po’ complicati da mandar giù per chi non ha un orecchio abituato all cose di scienza.

E comunque la lezione dell’Osservatorio Astronomico di Saint Barthélemy è una lezione di vita certo non originale ma di sicuro non scontata di questi tempi: il mondo è questione di proporzioni. Nè più nè meno. Ed essendo le proporzioni relative molto dipende da come e da dove le si guarda. Quando il mondo delle stelle lo si guarda da Saint Barthélemy tutto si ribalta. Le stelle diventano grandi. Le montagne piccole. E l’uomo un Equivoco.

Valsinni, i versi sbagliati di Isabella Morra

Fu la voce di una donna a dar forma e storia al piccolo paese di Valsinni. Isabella Morra, giovane e poetessa. Protagonista di una storia drammatica che riempì le cronache locali di un Cinquecento che vantava – e mostrava – i suoi splendori in un altrove lontano.

Altrove infatti il Cinquecento concedeva le sue bellezze, mentre a Valsinni – in provincia di Matera –  l’animo inquieto di Isabella Morra non riusciva a provar nient’altro che solitudine, e isolamento, e bramosia di fuga. Quel che offriva la vita da queste parti non le bastava in alcun modo: campagna a perdita d’occhio. Nulla di più. Così quando da quel nulla venne fuori un amore non fu un amore qualsiasi. Fu il dramma.

L’uomo di cui Isabella Morra s’innamorò era una uomo sbagliato. L’errore consisteva nell’esser straniero. Spagnolo. Gli spagnoli all’epoca erano quanto mai invisi ai Morra, nobile famiglia che dominava Valsinni. Una questione di politica e di schieramenti (ci son cose che non cambiano mai a questo mondo). L’uomo per cui Isabella perse la testa era dunque bello, spagnolo e per giunta di cultura (che equivoco la cultura in certi ambienti): Diego Sandoval de Castro.

Qualcuno a Valsinni dice ancora che fu solo un amore letterario. Una condivisione di pensieri e di passione per le parole. Ma quel che s’è tramandato  nella maggior parte dei racconti orali è un’altra versione.

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Isabella e lo spagnolo furono amanti. Poi, come in tutte le storie tragiche: amanti assassinati. La donna fu uccisa sotto gli alberi di questa piccola Basilicata dai suoi stessi fratelli che non poterono sopportare l’onta d’un amante spagnolo. E tantomeno potevano sopportare l’onta di tanta cultura.

Il fatto – l’equivoco – sta proprio nelle parole, stavolta. Quel che determinò la morte di Isabella e del suo amante (che ci fosse o meno una storia tra i due poco importa) sono i versi che una donna s’azzardò a scrivere nelle sperdute terre della Lucania dentro un castello-prigione a dispetto della famiglia e della Storia.

Questi:

I fieri assalti di crudel Fortuna

scrivo, piangendo la mia verde etate,

me che ‘n si vili ed orride contrate

spendo il mio tempo senza loda alcuna.

Gallicianò, le viscere greche dell’Aspro-Monte

Là dove le viscere dell’Aspromonte sono cariche di memorie dolenti incontri una Calabria che non t’aspetti. Una Calabria che non diresti tale. Ti imbatti in una lingua che non conosci nè riconosci. E non è un dialetto. Nè è un parlar “stretto”. I canti antichi di questa Calabria – che qui non certo per caso assume il nome di Gallicianò – s’innestano su una musica che sa di altrove. E quell’altrove lo ritrovi su altre coste del Mediterraneo che non innalzano la bandiera italiana.

Gallicianò è una frazione sperduta sulle montagne. Qui non ci si arriva mai per caso, talmente aspra e isolata è la strada. Se metti piede a Gallicianò è perchè questo posto l’hai testardamente cercato e voluto, identificato come meta.

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A Gallicianò parlano una lingua che è greca, non è calabra. Greco antico, o giù di lì. La comunità di Gallicianò è un baluardo dell’identità. Una fortezza dell’anima. Una briciola dell’Aspromonte caduta giù dall’Olimpo greco. La particolarissima lingua “masticata” dalle famiglie di queste poche case sopravvive con una tale ostinazione che fai quasi fatica a spiegarti. Eppure anche Gallicianò rientra in una mappatura dell’Italia delle minoranze linguistiche che in pochi hanno studiato, e di cui invece andrebbero approfonditi storia e genesi, ma soprattutto capacità di sopravvivenza.

La frazione di Gallicianò è come se fosse rimasta sotto una campana di vetro dai tempi della Magna Grecia. Un vetro che si incrina ogni volta che qualcuno – giovani soprattutto – se ne parte da qui. Lasciandosi alle spalle la barriera – la gabbia? – dell’Aspromonte.

Per i romani era Gallicianum. Per i greci era Galikiànon. Non è facile immaginare un futuro qui. E non è facile immaginare il futuro di questo posto. Eppure, qui si può parlare di resistenza. La lingua di Gallicianò resiste. Del resto l’habitat d’ogni resistenza non è sempre stata la montagna?

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A chi sceglie di inerpicarsi su questo Aspromonte (Aspro Monte, appunto) Gallicianò riserba uno dei suoi doni più belli e inattesi. Una chiesetta ortodossa: dove puoi “vedere” la lingua di questo posto. Perchè qui il passato è disegnato dalle icòne sacre. La chiesetta ortodossa di Santa Maria della Grecia è affidata in custodia ai monaci del Monte Athos. E il contesto sembra ancor più desueto. O forse no. Forse non c’è alcun equivoco a sentir antichi canti liturgici greci riecheggiare tre le vette dell’Aspro-Monte. Forse la resistenza qui è normalità.  Se non fosse così Gallicianò svanirebbe per tornarsene sull’Olimpo.

Piccoli uomini e donne in uno scantinato

C’è anche un funerale: e questo per un piccolo museo che si trova in una strada che si chiama Via degli Esplosivi è tutto dire. Però a riequilibrare il peso della vita e della morte c’è anche un matrimonio. Un inzio niente male per questa piccola storia che di importanza non ne avrebbe se non fosse che protagonisti sono proprio loro: i personaggi LEGO.

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Cominciamo col rendere più chiare alcune cose. Il nome della strada è reale. Non solo il nome, anche la strada lo è. Si trova nella cittadina di Colleferro, in provincia di Roma. E tra le piccole storie che andrebbero raccontate bisogna appuntarsi anche quella di questo posto in cui abbondano nomi legati alle armi (esiste anche una Via di Santa Barbara). Siccome nulla accade mai per caso, la storia di Colleferro, la sua nascita, le sue fabbriche, spiegano i nomi delle sue strade. Ma sarebbe un altro narrare, che qui interessa solo di sfuggita.

Torniamo (“torniamo a bomba” verrebbe da dire, ma…) in quella Via degli Esplosivi. Fermiamoci al civico numero 3. Uno scantinato. Le scale che scendono sottoterra. La porta stretta. Le luci al neon. Ecco, questo è il Museo del Collezionismo e del Modellismo. Testardamente gestito da un gruppo di appassionati volontari. I soliti trenini, che poi tanto soliti non sono dal momento che – per esempio – è stata ricostruita la stazione ferroviaria di Anzio. I soliti soldatini che si fanno la guerra. Galeoni e vecchie macchine da scrivere. E poi, dietro l’angolo, sotto un altro neon, loro: uomini e donne LEGO.

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Non è facile spiegare cos’è il mondo LEGO a chi non ne nutre la passione. Anche la storia di queste costruzioni andrebbe raccontata. Ma anche questo sarebbe un altro narrare. Nel mondo LEGO c’è tutto quello che la fantasia esige e tutto quello che la realtà immagina. I personaggi LEGO fanno ogni cosa: abitano mondi inventati dove guerreggiano in fattezze da Star Wars oppure lavorano faticosamente vestendo i panni dei tanti mestieri possibili, utili o meno. Insomma, un universo.

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E dentro il museo-scantinato di Colleferro c’è un vero e proprio universo popolato da queste piccolissime persone dalle manine smontabili, dai volti che solo un incompetente direbbe tutti uguali, dai corpi scambiabili. E ci sono le scene di vita: una partita di basket, un cinema con tanto di proiettore e sedie, un camper, una pizzeria, la troupe di Striscia la Notizia (già), camion, ruspe, giostre, pirati, poliziotti… un matrimonio (civile: gli sposi escono dal Comune) e un funerale.

Ecco, la scena del funerale LEGO è veramente un equivoco. Piccolo: perchè piccolissimi sono questi omini e queste donne. Con importanza: perchè guai a chiamarle costruzioni; e nel loro raffiguare la morte narrano come non mai l’essenza della vita.

Atzara. Quella Sardegna colorata per caso

Ammesso che sia mai possibile riassumere la storia di un paese in un paio di parole, per Atzara varrebbero queste: colori e volti.

Atzara è un piccolo centro agricolo della Barbagia Mandrolisai. Sardegna, naturalmente. E quel che di solito si immagina per l’entroterra sardo fatto di montagne e vestiti neri e lingua aspra qui si infrange contro una storia assolutamente particolare. Che ha qualcosa in comune con la Spagna e i pennelli. Diciamo che qui bisogna sfatare l’equivoco di una certa Sardegna di terra.

C’è senz’altro un motivo per cui quelle due parole – colori e volti – sono così rappresentativi di questo paese di origine medievale la cui nascita risale all’anno Mille. Un motivo da ricercare quando le giovani donne di Atzara si misero a far da modelle ai pittori spagnoli. E si ritrovarono a viver dentro allegri e coloratissimi quadri.

C’è un quadro che più di ogni altro si staglia contro l’orizzonte di quesa storia: è “La festa della confraternita di Atzara” .  La mano che dipinge questo quadro è quella del pittore Antonio Ortis Echague. Spagnolo. Anno di nascita 1883.

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Tutto ha inizio quando alcune persone di Atzara vanno a chiedere le indulgenze plenarie che venivano concesse in occasione dell’Anno Santo, nel 1900. Un incontro fortunato in una lontanissima piazza San Pietro. Come sempre è stata lontanissima Roma dalla Sardegna e in special modo dal centro di quest’isola.

A piazza San Pietro un giovane pittore spagnolo studente dell’Accademia spagnola delle Belle Arti di Roma nota alcuni uomini e donne in costume sardo. Ne rimane incuriosito. Probabilmente quei costumi colpiscono nel vivo una sua sensibilità artistica. Antonio Ortis Echague viene invitato ad andare direttamente ad Atzara.

E qui va sottolineata – a onor del vero – una grande apertura della gente di Atzara e soprattutto di un uomo che agli inizi del secolo scorso invitò in Barbagia uno studente dell’Accademia spagnola conosciuto per caso a Roma. Non era cosa di tutti i giorni.

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L’uomo cui si deve tale invito si chiama Bartolomeo Demurtas. A quei tempi è il possidente più ricco di Atzara, sindaco, podestà e persona di cultura. Così, Antonio Ortis Echague si ritrova in questo paese quasi sperduto e si mette a dipingere quel che vede: gente, case, costumi, campagna. Ed è così che oggi gli abitanti di Atzara possono riconoscere su quelle tele i volti a colori dei loro antenati.

La storia finirebbe qui se non fosse che negli anni a seguire arrivano ad Atzara altri pittori spagnoli. Nasce una sorta di scuola. Nasce un modo di far pittura. Arrivano nel tempo ancora altri pittori. Sardi, non solo spagnoli. Nasce un museo, piccolo e preziosissimo gioiello della Barbagia Mandrolisai. E tutto – val la pena ricordare – per un incontro fortuito nella lontana (vista da lì) lontanissima piazza San Pietro. Se non è un equivoco questo…

Per info vedi il sito del comune:

Comune di Atzara

Viggiano: arpa, Madonna… petrolio

Di Viggiano s’è parlato, ultimamente. Manco a dirlo: il petrolio. Che in provincia di Potenza (Basilicata) esista il petrolio non è che sia cosa proprio recente. Di recenti ci sono solo certi scandali. Ma qui hanno poca importanza. Perchè l’equivoco è un altro.

Viggiano – 3mila abitanti nella Val d’Agri – è stato un tempo paese di musicanti nomadi. Magari nessuno sapeva decifrare un pentagramma, ma tutti – uomini e bambini – sapevano far scorrere le dita sul più signorile degli strumenti.

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L’arpa a Viggiano tra l’Ottocento e il Novecento era tutto. E per tutto si intende effettivamente ogni cosa: pane, soldi, passione, mestiere. Vita. Siccome quella era l’epoca in cui lavoro e sostentamento in Basilicata erano parole, e concetti, rari, alllora gli uomini di Viggiano si misero a camminare per le vie del mondo. Suonando. La fame, infatti, li trasformò in musicanti di strada.

I musicanti di Viggiano non scelsero uno strumento qualsiasi. Nè scelsero uno strumento facile. Si misero a suonare uno strumento elegante come l’arpa. Che oltretutto si costruivano da sè. Ma non è nemmeno questo il punto. L’equivoco, in questa storia, è ancora un altro.

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Che sia una coincidenza. Che sia uno scherzo della Storia. Che invece ci sia un qualsivoglia legame. Chissà: chissà perchè proprio a Viggiano – dove c’è una delle più grandi piattaforme petrolifere d’Europa – viene venerata una Madonna Nera.  Che porta in grembo un bambinello anch’esso nero. Costruita in legno d’ulivo, con un vestito dorato, la Madonna di Viggiano ha il volto dello stesso colore del petrolio.

Monrupino. Di confine: ma quale?

Cos’è un confine. Questa è la domanda che ti vien subito sulle labbra quando arrivi quassù a Monrupino, sopra Trieste. Il confine è una lingua che cambia, è una geografia che segna il territorio, oppure sono i lineamenti dei volti che ti appaiono diversi di qua o di là. Quando arrivi a Monrupino nessuna di queste domande ti pare all’improvviso essere quella giusta. Qui semplicemente il confine non è.

A Monrupino, sul Carso triestino, nessuno ci tiene a quella linea immaginaria che separa una nazione dall’altra. Almeno, questa è la sensazione che si prova. Una sensazione a doppia mandata: equivoca. Perchè qui il confine c’è. Monrupino è un posto di frontiera. Contemporaneamente, però, questo è un luogo dove l’idea di confine si sgretola, si annulla, diventa melmosa. Sarà forse dovuto al fatto che quella linea immaginaria – da queste parti –  è stata più volte ridisegnata.

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Monrupino è allo stesso tempo Italia e Slovenia. Nelle menti, nelle usanze, nella lingua. Una sorta di paese “zingaro”. Poche case sparse su un territorio in proporzione anche piuttosto grande. Meno di 700 abitanti. Di là la Slovenia. Qui l’Italia. E due nomi per uno stesso paese: Monrupino in italiano; Repentabor in sloveno. Vanno bene tutti e due.

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Nel 1947 ad alcune frazioni di Monrupino è “capitato” d’essere diventate territorio sloveno (merito/colpa del Trattato di Pace di Parigi). Questo spostare in continuazione il confine tra due nazioni qui è sempre stato solo una sorta di equivoco. Non c’è altra spiegazione logica. Quindi a passeggiare per le strade di Monrupino (Italia) trovi un bambino che parla un’altra lingua (Slovenia). Le coordinate dell’identità sono mescolate e capovolte. Ne è venuta fuori una identità assolutamente particolare: l’identità dei popoli del Carso.

I confini chiedono, esigono, ordinano sacrifici di sangue. E qui ce ne sono stati, eccome. Il Fascismo prima, le Foibe dopo. Anche la Storia qui ha avuto un andamento equivoco. Melmoso.

Difficile districarsi in una questione così complicata come quella dei paesi di frontiera. Difficile catalogare Monrupino. Quant’è paradigmatico però questo posto.

Montemitro, Molise croato

Montemitro è un borgo del Molise. Il Molise, per chi non lo sapesse, è una regione d’Italia. Non è tanto per dire. Piuttosto è una precisazione necessaria. Perchè in realtà il Molise è una regione abbastanza sconosciuta. Soprattutto ne è sconosciuta la bellezza. In primavera, per esempio, il Molise è verde, verdissimo. Di un verde in alcuni tratti un po’ british. Colline dolci. Paesini dai nomi strani. Come questo: Montemitro. Che poi in realtà sarebbe quasi più corretto dire Mundimitar. Il nome di questo borgo, infatti, è un piccolo equivoco. Senza importanza.

A scavare indietro nella storia di Montemitro si trova un popolo in fuga. Un popolo che in fretta e furia dovette abbandonare la propria terra riuscendo a portar con sè una cosa sola. La meno ingombrante. La lingua.

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Quel popolo in fuga veniva dalla Croazia. E si mise a piantar nuove radici al centro del Molise, carico del solo fardello di parole slave. Ancora oggi a Montemitro si coltiva con una dedizione tutta particolare quella radice linguistica. Diventata una vera e propria minoranza aggrappata con tutte le unghie alla propria antica cultura. Come solo chi lotta per la sopravvivenza sa fare.

Da quel gruppo di profughi venuto via dalla Croazia nel Quindicesimo secolo è nato il primo nucleo di questo borgo, che oggi conta all’incirca cinquecento anime. Forse anche un po’ meno. I cambiamenti in questo pezzettino di terra sono piccoli e lenti, quasi concessi con avarizia dallo scorrere del tempo. Così quella lingua che ha attraversato il Mediterraneo tra la Croazia e l’Italia, ha scavalcato la costa, s’è rifugiata sulle colline, quella lingua che tanto somiglia al croato del Millequattrocento qui vuole ancora essere lingua viva. E lo è. Per tutti gli abitanti di Mundimitar che s’ostinano a parlarla.

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Il segreto, il mistero, l’equivoco forse sta tutto qui: l’essersi adattati quel tanto che bastava all’andare del tempo e dei cambiamenti. Così ci si è – per esempio – inventati parole nuove per esprimere concetti nuovi. Ma pur sempre nella sfera, nell’involucro, di quella lingua antica: il croato del Millecinqucento. E da sempre insegnata ai bambini del borgo.

Che non si creda però che questo aver mantenuto una lingua “altra” abbia fatto di Montemitro un luogo chiuso, isolato, geloso. Al contrario: lo ha reso un posto capace di ascoltare e di accogliere.

Le foto di Montemitro sono state gentilmente concesse da Gabriele Romagnoli

www.mundimitar.it