Valsinni, i versi sbagliati di Isabella Morra

Fu la voce di una donna a dar forma e storia al piccolo paese di Valsinni. Isabella Morra, giovane e poetessa. Protagonista di una storia drammatica che riempì le cronache locali di un Cinquecento che vantava – e mostrava – i suoi splendori in un altrove lontano.

Altrove infatti il Cinquecento concedeva le sue bellezze, mentre a Valsinni – in provincia di Matera –  l’animo inquieto di Isabella Morra non riusciva a provar nient’altro che solitudine, e isolamento, e bramosia di fuga. Quel che offriva la vita da queste parti non le bastava in alcun modo: campagna a perdita d’occhio. Nulla di più. Così quando da quel nulla venne fuori un amore non fu un amore qualsiasi. Fu il dramma.

L’uomo di cui Isabella Morra s’innamorò era una uomo sbagliato. L’errore consisteva nell’esser straniero. Spagnolo. Gli spagnoli all’epoca erano quanto mai invisi ai Morra, nobile famiglia che dominava Valsinni. Una questione di politica e di schieramenti (ci son cose che non cambiano mai a questo mondo). L’uomo per cui Isabella perse la testa era dunque bello, spagnolo e per giunta di cultura (che equivoco la cultura in certi ambienti): Diego Sandoval de Castro.

Qualcuno a Valsinni dice ancora che fu solo un amore letterario. Una condivisione di pensieri e di passione per le parole. Ma quel che s’è tramandato  nella maggior parte dei racconti orali è un’altra versione.

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Isabella e lo spagnolo furono amanti. Poi, come in tutte le storie tragiche: amanti assassinati. La donna fu uccisa sotto gli alberi di questa piccola Basilicata dai suoi stessi fratelli che non poterono sopportare l’onta d’un amante spagnolo. E tantomeno potevano sopportare l’onta di tanta cultura.

Il fatto – l’equivoco – sta proprio nelle parole, stavolta. Quel che determinò la morte di Isabella e del suo amante (che ci fosse o meno una storia tra i due poco importa) sono i versi che una donna s’azzardò a scrivere nelle sperdute terre della Lucania dentro un castello-prigione a dispetto della famiglia e della Storia.

Questi:

I fieri assalti di crudel Fortuna

scrivo, piangendo la mia verde etate,

me che ‘n si vili ed orride contrate

spendo il mio tempo senza loda alcuna.

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Viggiano: arpa, Madonna… petrolio

Di Viggiano s’è parlato, ultimamente. Manco a dirlo: il petrolio. Che in provincia di Potenza (Basilicata) esista il petrolio non è che sia cosa proprio recente. Di recenti ci sono solo certi scandali. Ma qui hanno poca importanza. Perchè l’equivoco è un altro.

Viggiano – 3mila abitanti nella Val d’Agri – è stato un tempo paese di musicanti nomadi. Magari nessuno sapeva decifrare un pentagramma, ma tutti – uomini e bambini – sapevano far scorrere le dita sul più signorile degli strumenti.

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L’arpa a Viggiano tra l’Ottocento e il Novecento era tutto. E per tutto si intende effettivamente ogni cosa: pane, soldi, passione, mestiere. Vita. Siccome quella era l’epoca in cui lavoro e sostentamento in Basilicata erano parole, e concetti, rari, alllora gli uomini di Viggiano si misero a camminare per le vie del mondo. Suonando. La fame, infatti, li trasformò in musicanti di strada.

I musicanti di Viggiano non scelsero uno strumento qualsiasi. Nè scelsero uno strumento facile. Si misero a suonare uno strumento elegante come l’arpa. Che oltretutto si costruivano da sè. Ma non è nemmeno questo il punto. L’equivoco, in questa storia, è ancora un altro.

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Che sia una coincidenza. Che sia uno scherzo della Storia. Che invece ci sia un qualsivoglia legame. Chissà: chissà perchè proprio a Viggiano – dove c’è una delle più grandi piattaforme petrolifere d’Europa – viene venerata una Madonna Nera.  Che porta in grembo un bambinello anch’esso nero. Costruita in legno d’ulivo, con un vestito dorato, la Madonna di Viggiano ha il volto dello stesso colore del petrolio.