L’anno: 1957. Il giornale: The New Yorker. E già così sarebbe da ricavarci una storia. Poi. L’intervistatore: Truman Capote. L’intervistato: Marlon Brando. E più che una storia a questo punto si sgrana davanti alla fantasia un mondo. Il mondo di quando su questa terra si aggiravano scrittori come Truman Capote e attori come Marlon Brando. E venivano stampati giornali in cui le interviste erano piccoli capolavori senza importanza.
I due si incontrano al quarto piano dell’Hotel Miyako, a Kyoto (Giappone). Brando è lì per girare un film (Sayonara). Capote è lì per intervistare uno degli attori più famosi e controversi di quegli anni (lui scrittore altrettanto famoso e controverso).
Capote arriva con venti minuti di ritardo. Una ragazza giapponese lo conduce alla camera di Brando. Un’altra ragazza giapponese gli apre la porta. Sorrisi e gentilezza. Albergo giapponese di stile occidentale. Porte scorrevoli di carta. Disordine nelle stanze occupate dall’attore. Qua e là pezzi di frutti smangiucchiati. Libri: opere buddhiste, meditazione zen, misticismo induista. Ma nessun romanzo: Marlon Brando non ne legge dal 3 aprile del 1924. Data che corrisponde al giorno della sua nascita.
Truman Capote osserva ogni più piccolo dettaglio di quella stanza al quarto piano dell’hotel Miyako di Kyoto. Osserva ogni gesto ogni smorfia ogni alzata di sopracciglia dell’uomo che ha davanti. Vuol raccontarlo. Ma pare non aver fretta di farlo. Non ha fretta nemmeno di far domande. Il suo è un gioco di lento avvicinamento letterario. Come temesse la trappola della fascinazione. La pazienza dell’attesa.
Quel che ne esce fuori non è solo una lezione di stile: la dolorosa bellezza della scrittura di Capote. Ma è soprattutto il ritratto di due uomini. Uno che dovrebbe far domande e non ne fa. L’altro che suo malgrado racconta un po’ della propria vita.
“Gli ultimi otto, nove anni della mia vita sono stati un disastro” dice Brando “Le persone sensibili sono così vulnerabili”… e l’intervista-racconto si srotola lentamente. Vale la pena leggerla tutta. Perchè è una piccola storia. Che diresti senza importanza. Mentre invece in quel numero del 9 novembre 1957 del New Yorker si faceva la Storia di un nuovo modo di far giornalismo e letteratura insieme. Il cui merito va tutto a Truman Capote.
“… e ascolta” Marlon Brando richiama per un istante Capote che si allontana lungo il corridoio dell’hotel. “Non prestare troppa attenzione a quello che dico. I don’t always feel the same way”. La frase di congedo dell’attore è il Capolavoro dell’Equivoco. Ore a rilasciare un’intervista. L’intervistatore che con pazienza certosina osserva sussurra scruta prende nota. L’intervistato che si apre forse come non mai davanti a uno scrittore venuto fino in Giappone a far il giornalista. Ed ecco che s’insinua quel dubbio.
Ps: a me rimane anche un altro dubbio. Siamo poi così sicuri che Truman Capote abbia scritto la verità?
Per leggere l’intervista integrale: