Le stelle della Valle d’Aosta

Il mondo è una questione di proporzioni. E le proporzioni sono – sempre – relative. Tutto dipende da come le si guarda. Da dove le si guarda. Esistono posti dove il cielo scappa via e non riusciresti mai a sentirtelo addosso. E posti invece dove ti sembra quasi di sentire il “peso” delle stelle sfiorarti i capelli. Uno di questi posti è la montagna: lassù il cielo ti segue pochi passi più in là. Solo un’impressione, forse. Solo un equivoco, forse. Eppure è in montagna che bisogna andare quando si ha voglia di studiare le stelle. Un posto in particolare: l’Osservatorio Astronomico di Saint Barthélemy, in Valle d’Aosta, quasi a metà strada tra il monte Bianco e il Cervino.

Saint Barthélemy è un posto privilegiato. Un posto “fortunato” per guardar le stelle. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, non a caso, vi fu costruito un Osservatorio Meteorologico. E con quell’Osservatorio si scoprì una cosa cui quassù in montagna nessuno avrebbe mai immaginato: a Saint Barthélemy ci sono in media 2150 ore di sole l’anno.

Il segreto, l’equivoco, di Saint Barthélemy sta tutto nella luminosità eccezionale del suo cielo. E del cielo di questa piccola regione, la Valle d’Aosta. Una regione che confina con le stelle.

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All’Osservatorio Astronomico di Saint Barthélemy ti aiutano a decifrare il cielo. All’inizio non è facile capire come funzionano gli strumenti per osservare le stelle. Sono oggetti che necessitano di un linguaggio un po’ ostico. Ma non bisogna farsi spaventare da questa severità di parole. Perché ala fine basta puntare l’occhio in un aggeggio dove c’è un gioco di specchi e di fasci di luce ed ecco che le stelle compaiono. Vicinissime. Ed eccolo lì anche, limpido, luminoso, netto: l’equivoco. Piccolo piccolo come l’uomo di fronte a questo cielo. E di infima importanza. Ma pur sempre un equivoco.

L’astronomia non è la scienza delle montagne. L’astronomia appartiene alle montagne. La parte più tortuosa del pianeta Terra, quella cui gli scalatori dedicano testardamente la propria vita e le proprie giornate, quella dove fare un passo è come conquistare un altro pezzetto di mondo e arrivare in vetta è come conquistare il mondo intero: proprio quella parte di terra meglio si aggancia alle stelle.

C’è un altro aspetto affascinante per chi nelle piccole storie di mondo cerca l’equivoco e il paradosso: la montagna è il regno della essenzialità. Tutti questi strumenti per guardar le stelle – invece – giocano su princìpi fisici un po’ complicati da mandar giù per chi non ha un orecchio abituato all cose di scienza.

E comunque la lezione dell’Osservatorio Astronomico di Saint Barthélemy è una lezione di vita certo non originale ma di sicuro non scontata di questi tempi: il mondo è questione di proporzioni. Nè più nè meno. Ed essendo le proporzioni relative molto dipende da come e da dove le si guarda. Quando il mondo delle stelle lo si guarda da Saint Barthélemy tutto si ribalta. Le stelle diventano grandi. Le montagne piccole. E l’uomo un Equivoco.

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Luigi Carrel, il camoscio del Cervino

Dicono di lui che sulle pareti di montagna era un camoscio, sui ghiacciai navigava come un vecchio marinaio, e al vento non si opponeva mai, ma si piegava come l’erba dei pascoli. Dicono di lui che quando ridiscendeva a valle era come l’acqua delle cascate di Cheneil. A Valtournenche sanno tutto di lui. Di Luigi Carrel.

Dicono anche – di lui – che avesse due occhi piccoli piccoli, ma veloci nell’acchiappare uno sguardo. Che nella vita non gli serviva altro che la sua pipa e la sua montagna, il Cervino. E dicono, anche, che non fosse di statura eccelsa. Per tutti era il Carrellino. Ma di Luigi Carrel in Valle d’Aosta si sentono dire solo parole belle. Perchè la sua fu una storia – e una vita – bella. Di una bellezza senza equivoci.

Luigi Carrel nasce nel 1901. Figlio di una guida alpina, anche Luigi ha la passione della montagna. Anzi, del Cervino.  Negli anni Trenta (del secolo scorso) il nome di Luigi Carrel comincia a diventar famoso. Ma è negli anni Quaranta che compie le sue avventure migliori raccontate perfino dai giornali dell’epoca: quel giovanotto che indossava un berretto messo di sbieco sulla testa era nato nella piccolissima frazione di Cretaz, giù in valle. Poi si era trasferito a Cheneil, un po’ più su, sempre all’ombra del suo Cervino.

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Nel 1937 Luigi Carrel si sposa con Maria Gaspard. Dopo qualche mese parte per la Patagonia (altre montagne, altre sfide) ma al suo rientro la moglie muore per le conseguenze di un parto. Carrel sfida il Cervino. Lo fa più volte. Le salite non si contano. E solo chi ha la passione della montagna – quella vera – può capire quale fu la grandezza di questo piccolo uomo.

Il bell’equivoco è un altro. Non sta nella fama di Carrel come pionere del Cervino.

C’era la guerra nel 1943, anche in montagna. Soprattutto in montagna. C’era la guerra e c’erano i partigiani. Luigi Carrel la sua scelta l’aveva fatta. Quand’era necessario passava il confine, lasciava la Valle d’Aosta a piedi e arrivava dall’altra parte, in Svizzera. L’uomo tutto nervi e scatti, con quegli occhi irrequieti e penetranti – come lo avevano descritto in un articolo de La Stampa qualche anno prima – era un uomo di una onestà trasparente. La montagna che era stata fino a quel punto una sfida quasi fine a se stessa, adesso per alcuni era diventata una necessità da oltrepassare. Per varcare un confine e mettersi in salvo. Così la guida alpina Luigi Carrel diventa passatore: aiuta chi ne ha bisogno a varcare quel confine passando per l’aspra montagna.

Dicono di Luigi Carrel che i suoi occhi – sempre quegli occhi piccolissimi – quasi spianassero la via prima ancora che le sue mani potessero aggrapparsi alle rocce. Non era uomo troppo avvezzo a usar parole, soprattutto lontano dai chiodi e dalle corde.

Equivoco post scriptum: forse i nomi di questi luoghi di montagna e il nome stesso di Luigi Carrel a molti non dicono nulla. Ma per quei pochi che li conoscono – e li amano – suonano come il nome di una patria.